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Intrecci controvento

Il primo intreccio è che A., in un’attività svolta a casa, ha scritto questa frase: “Sono triste perché ho preso un brutto voto”.

A. frequenta la scuola primaria da 5 mesi e (per sua fortuna) non ha mai preso un voto.

Il secondo è che M., una mattina apparentemente come tante altre, arriva a scuola, e piange. Mi avvicino, sono stupito perché non è mai successo, e scopro che il motivo è legato alla sua preoccupazione per le pagelle previste in pubblicazione durante quella giornata.

M. frequenta la scuola primaria da 5 mesi e (per sua fortuna) non ha mai preso un voto, cosa che tra l’altro succederà anche in questo documento ufficiale, infatti troverà e leggerà solo un racconto narrativo, umano e personale del suo percorso svolto in questi mesi.

L. è un maestro di scuola primaria, si scontra tutti i giorni con una scuola e un con mondo che sembrano tirare sempre dalla parte opposta, controvento.

Se bambini di sei anni iniziano il loro percorso scolastico con in testa già ben scolpito il pensiero che la scuola è quel luogo in cui qualcuno è li per giudicare quanto sono bravi e/o in linea con quanto il sistema ha deciso per loro, c’è qualcosa (di complesso e profondo) che non va.

Se bambini di sei anni hanno pensieri di questo tipo nonostante una realtà quotidiana totalmente differente, mi fa pensare e dire che c’è un problema ancora più grande, che va anche al di là di quello che un docente può o non può fare, nella quotidianità.

Aspetti che hanno a che fare con quello che il mondo, e noi essere umani di conseguenza, siamo diventati.

Ken Robinson ha espresso tutto questo, parlando di scuola, con una metafora tanto crudele quanto chiara, lineare e realistica: catena di montaggio.

Il capitalismo è molto radicato nelle scuole, ormai aziende a tutti gli effetti.

Certificazioni, voti, tag per velocizzare, sigle per indicare essere umani, bandi, dirigenti invece che pedagogisti, cause ed avvocati, fondi vincolati, eccellenza, merito. Mi fermo per non annoiare, potrei andare avanti a lungo.

Da maestro cerco tutti i giorni di sradicare questo sistema, ma la sensazione è quella di navigare sempre controvento: dentro, fuori, quasi tutto tira controvento. Credo di farlo perché sogno non solo una scuola, ma un mondo diverso.

Navigare controvento è faticoso, ma non impossibile.

E nel farlo spesso scopri che sono proprio i bambini e i loro genitori a navigare con te.

E allora, mi piace dare voce a Chiara e ai suoi pensieri.

Mia figlia T mi chiede di poter guardare il mio telefono: sa che è uscita la valutazione del primo quadrimestre e vuole leggerla sul registro elettronico. T frequenta la quarta primaria. Siamo in auto verso la piscina, le do il mio telefono. Trova velocemente quel che viene definito “pagellino”: lo legge ad alta voce. Pronuncia una serie di parole a singhiozzo, che compongono una specie di strambo telegramma: Italiano-Ascolto-Avanzato-Inglese-Parlato-Intermedio-Storia-Produzione-Intermedio-Geografia-Paesaggio-Intermedio-Matematica-Numeri-Avanzato e così via. La sua voce, mentre legge, via via si fa più bassa e arrabbiata. Finché arriva a buono di comportamento. Lo chiude, mi dice che non gliene frega niente, che le maestre avevano detto che buono di comportamento è il massimo che potevano dare.
Nei giorni successivi, le sue sorelle mostrano i loro voti (terza secondaria di primo grado) ai nonni, agli zii, ma T non riapre mai quel documento. Io do molta poca attenzione a queste tre valutazioni di queste mie tre figlie. Le mie due grandi, A e C, mi criticano per questo: hanno ragione. “Mamma, e allora quando sei contenta dei tuoi voti all’università?”, mi accusano con la ruvidezza adolescenziale che mi tocca ultimamente. Sono giustamente orgogliose dei loro voti, che hanno ottenuto con un indubitabile impegno. Glielo riconosco.
Per un po’, quindi, mi inchiodo lì: valutazione no, valutazione sì.
Tento di trovare una terza via: valutazione sì, ma non sempre, non per tutti uguale.
Di tutto ha bisogno la scuola, tranne che di standardizzare. E questi numeri delle scuole secondarie, queste terribili parole-etichetta della scuola primaria mi pare che non abbiano altro intento se non quello di infilare a forza le persone dentro a dei cassettini con un’etichetta scritta sopra. Avremo tempo di stare dentro a dei cassetti col nostro nome scritto davanti, adesso è il tempo di vivere e crescere. “Lasciamoci vivere. Le etichette le metteremo dopo”, diceva con grande potenza Truffaut ne “Le due inglesi”.
Nell’ultimo mese, girando di scuola in scuola come supplente e come ospite di tirocinio, ho incontrato diversi insegnanti. Ho chiesto con onesto interesse come stessero vivendo la valutazione di fine quadrimestre. Tutti invariabilmente mi hanno mostrato una grandissima insofferenza nei confronti di questi scrutini, ma quando ho chiesto loro se avessero mai pensato ad una valutazione narrativa, anche molto semplice (anzi, meglio semplice) loro mi hanno manifestato una stanchezza gigantesca e un altrettanto grande senso di rinuncia nei confronti della cosa. Forse con quella presunzione di chi immagina il proprio futuro, mi dico che, quando arriverà per me il momento di fare le valutazioni a scuola per effetto di una supplenza più lunga, non so ancora se per via ufficiale o ufficiosa, ma sono piuttosto certa che produrrò una valutazione narrativa, indirizzata personalmente ad ogni bambino.
Vado a colloquio con i maestri di T, che stimo molto. Chiedo loro, innanzitutto se T ha avuto qualche difficoltà in più rispetto all’anno scorso, di cui dovrei occuparmi. Chiedo se mi devo preoccupare del numero crescente di “intermedio”. La risposta è no, lei sta crescendo secondo un ritmo proprio e favorevole che la stretta griglia di valutazione non può restituire. Chiedo loro di spiegarlo chiaramente a T, dato che non ha capito la valutazione. Mi dicono che lo faranno e so che è così.
Me ne vado di lì più serena, so che i miei pensieri navigano controvento: lo fanno spesso, ci sono abituata. So, però, che è importante condividerli, per poi, magari, scoprire che, intorno, più o meno consapevolmente, ci sono altri che già percorrono da un po’ le loro rotte controvento, o aspettano solo la spinta giusta per salpare.

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